On Friday November 13th, LA7 Italian TV’s Editor-in-Chief Enrico Mentana interviewed Marco Boglione, BasicNet’s Founder and Chairman, at the 20th Pambianco convention on Fashion&Luxury, organized with Deutsche Bank within the Italian Stock Exchange headquarters in Milan. Boglione and Mentana discussed on the topic “An original business model” (courtesy of PambiancoNews).
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Il direttore de LA7 Enrico Mentana ha intervistato venerdì 13 novembre il fondatore e presidente del Gruppo BasicNet Marco Boglione nel corso del 20esimo convegno "Moda & Lusso: il momento delle scelte", organizzato da Pambianco in collaborazione con Deusche Bank nella sede della Borsa italiana a Milano (per gentile concessione di PambiancoNews).
Testo intervista
Lei è un grande pescatore di marchi storici che riporta all’onor del mondo. La possiamo mettere così? Non le dispiace?
No, no.
Nonché uno che ha sfruttato bene la Borsa…
No, è quello che abbiamo sfruttato meno bene, fino adesso. Anzi, no, l’abbiamo sfruttata anche bene, ma se vuole le dico perché.
Ci è andato presto però e ci è restato a vivacchiare tanto, dicono.
No. Ci siamo andati presto, ci siamo andati appena abbiamo potuto. Ho detto tante volte “per noi la Borsa era una quarta parte del tavolo che stavamo costruendo”. Se mi consente faccio un inciso sul perché siamo andati in Borsa. Noi i fondi li avevamo già avuti. Siamo una piccola azienda – adesso definibile “media”, ma siamo partiti piccolissimi, una garage-company. Nei primi dieci anni abbiamo avuto bisogno di aiuti per crescere, e quindi abbiamo preso a bordo un’azienda che ci ha dato una grossa mano sul piano industriale all’inizio. E poi fondi. E poi siamo partiti con il progetto BasicNet. I fondi funzionavano molto bene, ma avevamo tempi diversi: io volevo fare qualcosa che sapevo che se tutto andava bene ci avrei messo vent’anni, e i fondi invece non avevano quell’orizzonte temporaneo. Rischiavamo, se fossimo andati avanti con la struttura finanziaria legata ai fondi di investimento e al private equity a un certo punto di pensarla il modo diverso il che avrebbe condizionato il nostro progetto industriale. Quindi appena abbiamo potuto siamo andati in Borsa, io non ho venduto un'azione andando in Borsa – credo di essere l'unico passato qui dentro che non ha venduto azioni – ma ho soddisfatto degli azionisti che mi avevano dato molto, moltissimo e li ho sostituiti con azionisti diversi che possono entrare e uscire quando vogliono. C’è lo spazio per tutti per fare investimenti a breve, a medio, a lungo termine.
Quanto ha lei?
Io ho circa il 40%, io e i miei stretti familiari. Quindi il progetto era appunto il progetto Basic Net. Non mi lamento se lei dice che prendiamo marchi morti – e lo sottolineo, nel senso che non abbiamo comprato mai niente che non fosse da un fallimento, anche proceduralmente, da un giudice non da un privato.
Lei è come quel vecchino nel Far West che arriva col calesse con la bara, dopo la sparatoria.
Le racconto un aneddoto. C’è un modo di dire in Italia che quando le cose non vanno bene si dice andare a ramengo.
Adesso si dice andare a BasicNet?
(ride) Ramengo, ho scoperto da grande, è un paesino vicino a Cuneo, dove nascono i ferrivecchi, quelli che in regione andavano e raccattavano quello che nessuno voleva più e poi lo rivalorizzavano. Noi facciamo i ferrivecchi: prendiamo marchi che hanno una bella storia – cosa che è fondamentale – e con un macchinario costruito ad hoc che si chiama Basic.Net (che è la nostra azienda, il motivo per cui io sono qui: non è tanto la Robe di Kappa, la Superga, la K-Way, che potrebbero essere dei buoni motivi) ma effettivamente la cosa che ha fatto la differenza è quello che ci sta sopra, cioè questa famosa BasicNet, che è capace a prendere (come facevano a Ramengo i miei vecchi concittadini) delle cose che hanno perso tutto – apparentemente – il loro valore, ma hanno un valore intangibile molto elevato perché sono tutti i marchi con una grande storia.
Allora, vediamo brevemente uno per uno i casi, perché sono tutti casi di scuola che possono far sperare chi sta andando a ramengo. Robe di Kappa, perché era finito male?
Robe di Kappa aveva anticipato un po' quello che poi è successo in altri molti altri casi in Italia: essere un buon marchio con una cattiva azienda che lo possiede. Robe di Kappa era figlia del Maglificio Calzificio Torinese, un'azienda che quest'anno nel 2016 compie 100 anni (la Superga li ha compiuti qualche anno fa) e che per diverse vicissitudini aveva avuto un grande boom negli anni… dal 1916 era stata in pista; poi negli anni Sessanta aveva capito un grande cambiamento del mercato che era quello conseguente alla rivoluzione culturale di quegli anni dell’abbigliamento informale, del jeans&casual, e quindi era passata dell'abbigliamento intimo – era un calzificio, un maglificio – a un mercato completamente nuovo che appariva sulla scena in quegli anni con la Jesus Jeans, con la Robe di Kappa e poi con lo sport che fa sempre parte di quel mercato. E c'era un genio che come tanti del nostro settore di quegli anni che sono poi diventati famosi (Luciano Benetton in testa, ma tanti altri) purtroppo questo ragazzo straordinario nel pieno del boom all'inizio degli anni 80 si è ammalato, è mancato, e quindi l’azienda si è incasinata e in dieci anni è fallita; ma è fallita l'azienda, non è fallito il marchio – poi chiaro che il marchio era andato giù, si era un po' volgarizzato e quant’altro. Quindi quando siamo arrivati noi abbiamo comprato una magnifica storia, una storia di quasi cent’anni, l'inventore delle sponsorizzazioni, sostanzialmente, la prima sponsorizzazione del calcio italiano, la Nazionale di Atletica Leggera Americana durante le Olimpiadi di Los Angeles nel 1984 e un’azienda collassata, crollata. Ma quella non ci interessa, ci interessa solo il marchio: ci siamo così costruiti la BasicNet per riportare sul mercato – e ne aveva tutte le possibilità, non era il sogno di un pazzo, era qualcosa che necessitava di una certa struttura ma si poteva fare.
In che anno ha capito che era risorta Robe di Kappa?
Mah, guardi, che poteva risorgere l’ho capito subito.
Sì, ma quando i numeri le hanno dato ragione?
Abbastanza in fretta, perché noi siamo partiti con una di quelle sparate per cui tutti mi davano del pazzo già quella volta, di fare subito una azienda globale, non di fare un'azienda italiana e poi andare in Austria, in Svizzera, in Francia, in Spagna, uno a uno farsi tutti i paesi del mondo… c’erano delle grandi novità tecnologiche che si affacciavano e che influenzavano la comunicazione, ma c'erano anche novità diciamo di legalità di commercio mondiale – la globalizzazione, la World Trade Organization. Io ho pensato che con un marchio di questo tipo noi potevamo partire globali e tutti mi hanno detto “no, sei pazzo, impossibile” e io ho detto “io in un anno venderò in 60 mercati” e in un anno vendevamo in 64 mercati e quindi alla fine del primo anno ho capito che poteva funzionare.
Con Superga come è andata?
Con Superga è stato un po’ più facile, perché erano già dieci o dodici anni che investivamo sulla BasicNet e Kappa sviluppava già un certo volume di affari, quindi abbiamo potuto affrontare il tema un po' più rilassatamente, e quindi è andata bene dall'inizio, perché Superga è un prodotto straordinario che ha 100 anni di vita.
Però lei la fa facile. Non sarebbe fallita se…
No, ma non so io son mai fallito. Ci sono andato vicino, ma non ho mai licenziato una persona in vita mia.
No, Superga era fallita: non lei.
Mah, di nuovo… Superga era fallita, ed è fallita effettivamente, però la scarpa era sempre quella.
Sì ma perché, secondo lei? Perché era fallita e perché lei ha capito che quella era un’occasione da prendere al volo?
Superga è fallita come sono fallite tante altre aziende italiane perché forse, per tanto tempo, non si sono allenate a un qualche cosa; che era tutto sommato facile continuare a fare così. Prima l’Italia ha dormito un po’ sugli allori, in tutte le aziende italiane a un certo sono arrivate delle realtà che hanno detto “ce ne occupiamo noi”: tipicamente il mondo della finanza. Nel nostro campo queste aziende sono state condotte per un certo numero di anni da logiche più finanziarie che industriali o di prodotto.
Che sono mortifere in alcuni casi.
In alcuni casi sì, soprattutto poi quando l’azienda è piccola e vive di passione, di sensibilità, di emozioni: combinare quelle due cose è difficile.
Quanto si possono sinergizzare due marchi che sono lontanissimi e mai contaminabili l'uno con l'altro? Robe di Kappa e Superga ad esempio: c'è soltanto in comune la casa madre.
C’è in comune la casa madre e un grande mercato di collocamento, nel senso che siamo comunque…
Possono stare nello stesso negozio? (interviene Mentana)
In qualche negozio sì, ma in una piccola parte di negozio, perché in Superga c'è anche una componente diciamo sportiva: nasce come scarpe da tennis degli anni ‘20. Kappa ha una forte componente (sportiva, ndr); quindi, certe volte sì, si possono trovare (insieme, ndr). Però sono tutte in un grande mercato, che è quello dell'abbigliamento sportivo e informale, che gli americani chiamano “apparel” e che quindi ha a che vedere con la comunicazione: con la comunicazione del proprio io, della propria personalità. Sono segnali…
K-Way… quando?
Beh, a ruota, insieme a Superga, quindi a metà degli anni 2000. Nel 2005 l’abbiamo acquisito, bloccato, portato in scuderia. Poi Superga è partita prima, K-Way è partita nel 2008. Superga è stata quella che ci è stata più facile far partire. K-Way – tra l'altro, che sicuramente adesso va bene, va proprio bene, ci dà un sacco di soddisfazioni – comunque ha fatto una fatica pazzesca a partire, ma pazzesca. Superga è stato un giochino perché bastava rimettere in ordine il prodotto, un po' di distribuzione.
Quanto ha contato che ci fosse pressoché contemporaneamente l'esplosione e la rinascita, forse di riferimento, di Moncler?
Mah, un po’ ha contato, sicuramente, anche perché noi abbiamo fatto una strategia in qualche modo opportunistica nei confronti di Moncler. Moncler è diventato quello che è diventato, ma ha un po' abbandonato quello spazio che ha lasciato a K-Way in un certo tipo di distribuzione, che era quello che ci poteva aiutare molto a rivalorizzare il marchio. Moncler è oggi uno dei grandi brand lusso, globalissimo, fantastico, questo è fuori discussione, e noi siamo entrati in quel mondo dove Moncler lasciava un po' di spazio. Non poteva essere diverso, perché K-Way ha una fortissima vocazione sportiva e funzionale e quindi è difficile che K-Way diventi poi, alla fine, un marchio del lusso inteso come i grandi marchi del lusso. È un marchio sicuramente di lusso perché quando vendi una giacca da 500 euro non è che sia accessibile.
Senta, quanto gioca la memoria? Noi possiamo vedere una fotografia di 30 anni fa e un Boglione o anche un Mentana con, magari, una maglia Robe di Kappa, delle Superga e un K-Way perché sta per piovere, tutti e tre contemporaneamente, ed è tutto molto quindi… non si dice nel mondo alla moda… così amarcord. Conta il fatto che ci sia una memoria di questi marchi su generazioni ben definite che possono tramandarle a quelle successive?
Guardi, gli americani la chiamano in due modi questa cosa: una tecnica-finanziaria, che si chiama brand-equity, è il valore del brand, questa memoria che lei dice c’è anche sulla Nutella, che è sempre la stessa, o sugli orologi Casio. È il peso del brand che viene da lontano. L'altro è il romance, cioè la storia, la chiacchiera. Quindi la risposta è: moltissimo.
Ha ancora appetito?
Beh, sì, penso di sì.
È una cosa che vi è riuscita tre volte: non c’è tre senza quattro.
Anche di più: abbiamo quello che in termini finanziari si chiama un garage.
Cosa avete in garage?
Abbiamo un marchio bellissimo che è Jesus Jeans, ma io purtroppo non sono un jeansarolo e quindi faccio fatica con il prodotto.
“Chi mi ama mi segua”?
Niente di meno. E Pasolini, e il museo del jeans a Parigi.
Quella pubblicità è ricordata più per il contenuto che per il contenitore. Forse è questo che spiazza.
Lei ha perfettamente ragione, perché in effetti quel pantalone nessuno lo ha guardato, perché se lo guardava bene si accorgeva che era un pantalone della concorrenza, non era un Jesus Jeans.
Senta, dopo aver svuotato il garage c'è spazio per fare nuove operazioni? Ne ha in mente?
Guardi, io penso sempre in termini di BasicNet. Oggi è più facile spiegarlo di quanto lo fosse vent'anni fa: oggi li chiamano Marketplace. Lei ha citato Superga, le K-Way e le magliette della Kappa. Io non produco, non possiedo e non fatturo una maglietta, una scarpa o una giacca all’anno, capisce? Io non ho niente a che fare con le magliette. Noi siamo un Marketplace. BasicNet è un'azienda che si occupa, verticalmente sui marchi, solo degli aspetti intangibili della catena dell'offerta. In questo momento sta facendo lavorare 600-700 imprenditori di sole due categorie, che sono manufacture – fabbriche, sostanzialmente: imprenditori di produzione – e imprenditori di distribuzione. La BasicNet fa lo stile, l'industrializzazione, il marketing, il sistema informatico affinché tutto possa funzionare senza toccare mai un pezzo di carta, e questi imprenditori fanno direttamente tra di loro, esattamente come lo fanno fornitori e clienti su Alibaba. Quindi: quanti ne voglio io di marchi? Tutti!
Questo, che oggi è ben comprensibile, vent'anni fa lo era molto meno. È una contraddizione straordinaria: un'azienda estremamente innovativa nell’afflato iniziale, e che continua a esserlo, che però vende ricordo, memoria, vintage attualizzato.
No, no, guardi… noi con il vintage proprio non abbiamo nulla a che fare, ho buttato via centinaia di prototipi perché erano vintage. Ogni nostro marchio ha un suo DNA e chi disegna si ispira al DNA, che è un DNA fortissimo.
Sì, ho sbagliato, vintage è la parola sbagliata.
K-Way, per esempio, deve rispondere a 5 punti: deve essere un prodotto classico – una giacca, un gilet, un cappotto, cioè qualcosa che già esiste. Classico, ma mai vintage: il classico può essere contemporaneo. Per essere contemporaneo non devi scrivergli sopra 2015: è la tecnologia che data il mondo, che data l'universo, quindi deve integrare lo stato dell'arte della tecnologia. Deve essere funzionale e deve essere colorato.
Una Bic, praticamente una Bic.
Sì, ma anche uno Swatch! Quindi non siamo mai vintage, siamo sempre contemporanei. La contemporaneità è tecnologia, la tecnologia dà la funzionalità, il colore dà la differenza, ed ecco il K-Way.
Ha fatto mai il calcolo di quante persone fa lavorare pur essendo un Marketplace?
Dunque, sono veramente tante. Facendo il calcolo sulla base dei pezzi che noi controlliamo venduti all'anno, che sono circa 50 milioni, e sapendo più o meno quante ore ci si mette a fare un capo in media, sono 40.000: 500 sono a Torino, circa 2000 sono nella rete distributiva, le altre sono persone – di cui non sappiamo neanche nome cognome – è gente che lavora a tempo pieno durante l'anno per produrre 50 milioni di pezzi nostri.
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