Il programma televisivo “Anata no Shiranai Italia he” (Quello che non sai dell’Italia) dedica una puntata a Marco Boglione, Fondatore e Presidente del Gruppo BasicNet. “Anata no Shiranai Italia he” viene prodotto e trasmesso dalla televisione satellitare giapponese BS-TBS, che fa parte del Japan News Network. Si tratta di una delle più importanti televisioni nazionali. La puntata dedicata a Marco Boglione, andata in onda lunedì 5 marzo alle ore 11 PM (local time), è stata vista da oltre 2 milioni di persone.
«Buonasera, sono Marco Boglione, Presidente e Fondatore di BasicNet».
«Quando qualcuno mi chiede qual è stata la più grande fortuna della mia vita, io gli rispondo che la più grande fortuna della mia vita è di fare a 60 anni quello che sognavo di fare quando avevo 15 anni. Quando ero giovane io – ancora adesso – la creatività non era associata all’impresa, intellettualmente, popolarmente. Io sono un creativo, io da giovane ero già un creativo. Mi piaceva la fotografia, il software, tante cose... ero un immaginativo, quello che facevo meglio era immaginare. E mi prendevano anche un po’ in giro all’inizio. Io credevo che immaginare fosse la base per fare l’imprenditore».
«Sui prodotti, sui brand: ogni brand ha una sua filosofia, un suo positioning. Ha i suoi punti di riferimento, dentro i quali lo stilista e gli stilisti devono lavorare, per non fare solo cose belle ma belle e secondo una strategia, secondo una filosofia. Di ogni brand vogliamo definire la sensazione del consumatore nei 15 minuti successivi all’acquisto del capo. Subito dopo, appena comprato, appena pagato: cosa sente, come si stente, che sensazione ha? E noi diciamo che ci compra K-Way si deve sentire clever, intelligente, perché ha comprato una cosa bella, che gli piace, spiegata bene, tecnica, funzionale, classica, ma al prezzo giusto».
«Abbiamo Kappa, Robe di Kappa, Superga, K-Way, Sebago, ma non produciamo, non possediamo e non fatturiamo una maglietta, una giacca o un paio di scarpe all’anno. BasicNet non fattura per il prodotto ma fattura per i diritti che cede, per produrlo o per venderlo. È un’azienda di share economy – di economia condivisa – perché sono tantissime le aziende nel mondo: sono circa 800, in questo momento, le aziende nel mondo che o producono o distribuiscono il nostro prodotto. Quindi è un’azienda completamente diversa da quelle che esistevano 30 anni fa. Oggi ce ne sono tante di aziende organizzate come noi, ma non nell’abbigliamento: noi siamo stati i primi e per adesso siamo gli unici a essere organizzati così».
«Tutto comincia verso la fine degli anni Settanta, quando il boom del jeans unisex, che era iniziato nel Sessantotto, e i giovani del Settantotto (io avevo 22 anni; nel ’76 venti) dicevano sostanzialmente. “Vogliamo qualcosa di nuovo”. E quel qualcosa di nuovo si chiamava sport. “Vogliamo essere liberi di vestirci sportivi”».
«Allora io un giorno ho convinto il mio capo che dovevamo cambiare, e lui era molto intelligente, molto veloce, e mi ha detto: “Hai ragione, bisogna fare lo sport; bisogna entrare nello sport”. Come si fa? Si prendono gli “Omini” della Robe di Kappa e li si mettono sulla maglia della Juventus. Non su un cantante o su un politico. E allora siamo andati alla Juventus e abbiamo detto: “Possiamo mettere i nostri ‘Omini’ sulla tua maglia? Ti diamo di soldi”. Noi non sapevamo che si chiamasse sponsorizzazione; l’abbiamo capito tre-cinque anni dopo».
«Quella che abbiamo presentato a Tokyo nel 2002 ai Campionati Mondiali di Calcio è la Kombat, la famosa Kombat, che per me è indimenticabile perché dopo la presentazione della Kombat ho ricevuto una telefonata pazzesca dal “numero uno” della Nike che mi faceva i complimenti».
«Io ho la fortuna di trovare piacere lavorando, però credo che il lavoro – a prescindere – sia un dovere: un dovere sociale, civile, personale, familiare, umano, esistenziale. Noi siamo esseri lavoratori. Gli uomini, a differenza degli animali, sanno lavorare. Sanno costruire. Quindi ogni uomo ha prima di tutto il dovere di lavorare. Penso che sia il più grande privilegio umano, quello di poter lavorare, e che non poter lavorare sia una schiavitù del nostro corpo e del nostro intelletto. A me fanno pena quelli molto ricchi che non lavorano. Mi fanno pena. Dico: “Non sai cosa ti perdi”».
«Io voglio fare due cose. La prima è consolidare quello che ho fatto, perché è un dovere che ho nei miei confronti, della mia famiglia, nei confronti di tutte le persone che lavorano qui dentro e nei confronti della società, perché – dal mio punto di vista – l’impresa rappresenta un valore sociale enorme. E quindi, come se l’azienda fosse un figlio o una figlia, vederla andare avanti da sola. Questa è la cosa più importante che devo fare. Poi devo trovarmi qualcos’altro da fare. Come per uno scalatore: finita una montagna ne vuoi fare un’altra, finché puoi. Facendo il mio mestiere che è quello di fare l’imprenditore, e sfruttando – per fare l’imprenditore – la cosa che ho di più, che è la creatività. L’immaginazione».
È sera. Marco Boglione sceglie di andare a mangiare da Edit, in via Cigna a Torino.
«Perché è un ristorante nuovo, fatto da un mio amico – creativo, imprenditore come me – che per fortuna ha avuto un successo straordinario. E a me piace molto. Mi piace perché è stato immaginato. Non esiste qualcosa di simile, per cui si possa dire: “Ha fatto questo ristorante come un altro”. È nuovo. È un trip nuovo».
Marco Boglione opta per un piatto di pesce. Lo assaggia e fa un gesto di apprezzamento.
«Mi spiace che tu non lo possa provare. Si sentono dei gusti che tu non senti mai quando mangi il pesce. Però si sente anche il gusto del pesce, ma è marinato, salato, c’è della salsa di soia, è bruciacchiato con un gas – il propano – che non è il metano, e quindi gli toglie solo il grasso. È straordinario».
Breve intervista allo chef, che prepara il risotto. Marco Boglione lo assaggia e annuisce con soddisfazione.
«Non ho parole... Il riso di qualità italiana è prodotto tutto qui. Questo è un riso Carnaroli, speciale, super, prodotto qui vicino. A me piace mangiare molto semplice: 99 volte su 100 mangio semplice, basic, mediterraneo al 100%. Quando mangio un po’ più sofisticato, mi piace molto la cucina di qualità ma molto creativa. O molto semplice o molto creativa. Mi piacciono i ragazzi, mi piace lui (indica lo chef) e mi godo la cucina pensando a lui, al suo personaggio, a come ti spiega il piatto. Me lo godo».
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