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Intervista a Marco Boglione: "Per il rilancio non servono tavoli"
Corriere della Sera - Edizione Torino 29/11/2017 pagina 2 
Autore: Marco Imarisio


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L'imprenditore proprietario di BasicNet, la sigla che racchiude i marchi Robe di Kappa, Superga e K-Way, non ha cambiato idea rispetto al 2016: «Mi sembra che Appendino sia ancora molto popolare. Ma non ho ancora capito quale visione abbia per la Torino dei prossimi 10-15 anni. Non riesce a comunicarla. Il suo punto debole è questo. PRIMA PAGINA

Imprenditore proprietario di BasicNet, la sigla che racchiude i marchi Robe di Kappa, Superga e K-Way, non ha cambiato idea rispetto al 2016: «Mi sembra che Appendino sia ancora molto popolare. Ma non ho ancora capito quale visione abbia per la Torino dei prossimi 10-15 anni. Non riesce a comunicarla. Il suo punto debole è questo. Manca un progetto «La sindaca è ancora molto popolare. Il suo punto debole è la mancanza di visione»

«Come sta?» «Cosa vuole, invecchiare è una gran sfortuna, ma sempre meglio di quelli che invece non ci riescono». C`è questo di bello, in un colloquio con Marco Boglione. il signor BasicNet, che poi è la sigla da 300 milioni l'anno di fatturato con dentro 600 persone che lavorano a marchi da immaginario collettivo come Robe di Kappa, Superga e K-Way, non si dà arie di nessun tipo, e coltiva il vizio di parlare chiaro. Nel giugno 2016, a cavallo tra primo turno di ballottaggio delle amministrative, diede scandalo prevedendo la futura vittoria di Chiara Appendino, ed ebbe l'ardire di sostenere che un cambio di stagione a Palazzo di Città non gli sarebbe dispiaciuto. Entrambe le cose in quei giorni equivalevano più o meno a bestemmiare in chiesa. «Veniamo subito al dunque: non ho cambiato idea. Facevo bene a non essere preoccupato. Continuo a essere convinto che in Comune non siano arrivati i barbari, ma persone giovani e animate da tanta buona volontà. C'è differenza».

Non le sembra che dopo piazza San Carlo sia cambiato qualcosa? «Onestamente, no. Andando in giro per la città, mi sembra che Chiara Appendino sia ancora molto popolare. Almeno tra la gente è così. Per le famose elites forse è diverso, ma solo per loro».

Nessuna differenza tra prima e dopo? «La vedo più preoccupata, meno serena. Ha le spalle più pesanti, questo è certo. Ma non credo che le vicende giudiziarie possano cambiare la percezione che i torinesi hanno di lei».

Neppure la paura del declino o della perdita di rilevanza della città? «Quella sensazione, che esiste, è frutto del suo principale punto debole».

In cosa consiste? «Non ho ancora capito, e credo di essere in buona compagnia, come la sindaca si immagini la Torino dei prossimi 10-15 anni. Se ha un'idea, finora non è riuscita a comunicarla».

Le sembra una mancanza grave? «Avere una visione è quel che serve a dare stimolo alla rinascita e alla crescita cittadina dopo la chiusura di un ciclo durato quasi venticinque anni».

Ha consigli da dare? «No, per carità. Vorrei soltanto che la sindaca rendesse esplicita la direzione verso la quale stiamo andando. Magari è solo un problema di comunicazione, ma finora è mancato questo. Bisogna insistere, dire dove vogliamo andare tutti insieme».

Cosa la preoccupa nell'immediato? «ll debito del Comune. Se fosse un'azienda privata i libri sarebbero già in tribunale. Lo sanno tutti. E poi a volte percepisco una carenza di organizzazione, senza la quale condurre la cosa pubblica diventa più difficile».

La scelta della sindaca di fare un solo mandato non rischia di condizionare una eventuale visione di lungo periodo? «Se lei nel frattempo sarà stata capace di fare quanto detto sopra, di approfittare in senso positivo di questi cinque anni, no. E poi forse, come succede in ogni azienda che si rispetti, l'avvicendamento al vertice non può che fare del bene».

Negli ultimi venticinque anni è mancato? «Diciamo che attaccarsi alla poltrona come è stato fatto in passato invece non fa mai bene. Non parlo tanto di sindaci, quanto di assessori, dirigenti e funzionari assortiti».

Cosa pensa dell`idea lanciata dalla vicepresidente di Confindustria Licia Mattioli di un nuovo tavolo di sviluppo per la città al quale siedano imprenditori ed esponenti della società civile? «Non mi entusiasma. Potrebbe anche essere utile, ma personalmente non credo nei tavoli. Soprattutto oggi, che Torino non ha più una identità definita». 

Chi ne ha la colpa? «Nessuno in particolare. I periodi di transizione sono fisiologici».

Il tavolo della fine degli anni Novanta non servì proprio a creare una fase nuova? «In effetti fu utile, niente da dire. Ma dobbiamo essere sinceri: l'effetto Olimpiadi, le ristrutturazioni e le nuove infrastrutture che i Giochi del 2006 portarono con sè, non nascevano certo dal confronto tra le varie anime della città. Certe cose andrebbero smitizzate».

A cominciare dal ruolo avuto allora dalla società civile? «Credo che la parte più importante del famoso patto del 1993 sia stata quella svolta da Sergio Chiamparino quando era segretario cittadino dei Ds. Fu lui a dare le carte, a convincere o ad obbligare il suo partito a seguire una direzione».

Il famoso primato della politica? «Credo sia un principio attuale anche oggi. Può non piacere, ma è così. Sono un convinto sostenitore del fatto che ognuno deve fare la sua parte, senza andare oltre».

E la parte degli imprenditori come lei qual è? «L'ho appena dello. Ognuno faccia il suo mestiere. Noi imprenditori siamo ovviamente disponibili al confronto. Ma nell'interesse di tutti la cosa migliore che possiamo fare è mandare avanti le nostre aziende».

Allora perché ogni tanto si parla di lei come possibile sindaco? «Perché purtroppo la politica è sempre più debole, quindi cercano soluzioni alternative».

Ci ha mai fatto un pensiero? «Sono tanti anni che sento girare questa voce. Spero che nessuno me lo chieda mai, perché vorrei continuare a fare quel che faccio oggi».

Il suo non è un no. «Non è neppure un sì. Anzi. Come le dicevo all'inizio, ormai ha scavalcato la soglia dei sessant'anni. Non è più tempo per cambiare. Il mio futuro è la mia azienda».



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